lunedì 18 ottobre 2010

LA COMPLESSITA' DELL'ACCOGLIENZA

La migliore risposta ad Angela Merkel, sul fallimento del multicuralismo, è giunta proprio da un uomo della sua parte politica: mentre i falchi del Pdl e la Lega prendevano la palla al balzo per annunciare la prematura scomparsa dell’integrazione, con tanto di anatemi pubblici sulla Sarubbi-Granata, Gianfranco Fini ha ricordato una cosa semplice semplice.
Che la convivenza tra culture diverse, cioè, fallisce quando non si punta sull’integrazione: o per difetto di fiducia verso la possibilità concreta di integrarsi (ed è quello che fanno i francesi, quando pretendono l’assimilazione) o per eccesso di fiducia (ed è un rischio di superficialità che riguarda soprattutto alcuni settori del Centrosinistra, convinti che non ci sia storia senza lieto fine). Credo che alla luce di questo dibattito in Europa – il Corriere di oggi riportava, oltre al caso della Germania, anche quello di Gran Bretagna, Francia e democrazie nordiche – valga la pena rileggere con serenità il confronto sull’immigrazione avviato da una decina di giorni all’interno del Pd.
Democratica, la scuola di politica fondata da Walter Veltroni, mi ha chiesto un contributo sul tema dei meccanismi selettivi, dal punto di vista del mio impegno per la cittadinanza. Siccome, nel suo piccolo, è anche una risposta alle preoccupazioni crescenti tra i nostri partner europei, ve lo propongo qui sotto. Tempo di lettura: 3 minuti.
Neanche la crisi economica, che pure ha rallentato nell’ultimo anno la pressione dell’immigrazione irregolare sulle frontiere europee, è riuscita a ridimensionare in Italia il numero di stranieri regolarmente residenti.
Al contrario, ci dicono i dati più recenti dell’Istat, la loro presenza è addirittura cresciuta, passando dal 6,5% al 7% dell’intera popolazione. È un pezzo d’Italia che non si muoverà più: che piova o ci sia il sole, che l’economia parli di sviluppo o recessione, che alle coalizioni di turno a Palazzo Chigi piaccia oppure no.
L’immigrazione nel nostro Paese è un fenomeno ormai stanziale, come direbbero i demografi, e non può dunque essere affrontato con le categorie classiche dell’emergenza: la fase due richiede infatti – per usare le parole del Papa, nel suo messaggio alla 46esima Settimana sociale dei cattolici italiani – “la ricerca di strategie e di regole che favoriscano l’inclusione delle nuove presenze”.


Strategie e regole sulle quali si può discutere, come sta facendo il Partito democratico dopo l’assemblea di Varese, ma dalle quali non si può derogare: altrimenti si fallirebbe anche da un punto di vista etico, perché ogni immigrato in più nei nostri confini è una chiamata alla nostra responsabilità. Come il buon samaritano del Vangelo di Luca, che dopo aver caricato sulle sue spalle il poveraccio picchiato dai briganti “si prende cura di lui”: prima ne fascia le ferite con olio e vino, poi lo accompagna in un albergo e si fa carico delle spese, quindi ritorna il giorno dopo a controllare che tutto vada bene.
È una parabola a punti? Non so, non saprei.
So solo che, anche sul piano etico, incrociare una storia significa poi accompagnarla.
Fino alla guarigione, nel caso della parabola evangelica. Fino alla cittadinanza, nel nostro.
L’errore più grande che uno Stato possa commettere è quello di aprire le porte a tutti, per poi lasciare ognuno al proprio destino; ed è paradossalmente l’errore più facile da compiere per una forza politica di Centrosinistra, nel nome di un malinteso concetto di filantropia che in realtà rischia di banalizzare la complessità dell’accoglienza.

Come se la responsabilità di uno Stato rispetto al migrante finisse nel momento stesso dell’ingresso, mentre invece è proprio lì che comincia: per poi finire, appunto, nell’attimo in cui quella storia trova la sua casa. Anche in termini economici, infatti, l’integrazione è un investimento che trova senso proprio nel suo obiettivo finale; e quello della cittadinanza – come dimostrano i dati dell’Ocse, che ci vedono all’ultimo posto fra i grandi Paesi europei per numero di cittadinanze concesse in rapporto agli stranieri residenti – non è un lieto fine scontato, se non viene accompagnato da una presa in carico da parte della comunità che accoglie.

Sul fronte dei minori – che nel 2009 hanno toccato quota 930 mila: la quarta città italiana, per numero di abitanti – ci pensa la scuola, nel suo doppio ruolo di agente formatore e socializzatore; su quello degli adulti, lo stesso Stato che ha aperto le porte della propria casa non può sfuggire al dovere morale di garantire, a chi vi è entrato, la possibilità di restarci dignitosamente, attraverso un lavoro. È uno scandalo, allora, pensare ad un sistema di ingressi programmati che non si basi sulla regola del salumiere (chi arriva per primo prende il numeretto) ma su alcuni criteri qualitativi, che possano favorire chi ha più chance di percorrere la strada fino alla fine?
La proposta di legge bipartisan da me presentata insieme a Fabio Granata, e sottoscritta da 50 parlamentari di varie forze politiche, prevede una corsia preferenziale per i minori nati o cresciuti qui, tenendo anche conto del ruolo della scuola; per gli adulti, propone uno snellimento dei tempi (attualmente biblici) ed una certezza delle procedure in cambio di alcuni requisiti qualitativi, come la conoscenza della lingua e la disponibilità di un reddito minimo, pari a quello indicato nell’assegno sociale.

Parallelamente, chiede allo Stato un impegno concreto ad accompagnare questo processo attraverso dei corsi di integrazione, da avviare con l’aiuto degli enti locali e delle associazioni impegnate nel campo. Quando lo presentammo, più di un anno fa, passò alla cronaca come una proposta di buon senso e pragmatica. Né buona e né cattiva, ma giusta.

Come ogni politica sull’immigrazione dovrebbe essere, se non vuole restare impantanata nella palude dell’ideologia



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